Posizioni & Deposizioni

 Fra interferenze e inter-soggettività: al di là della «lirica» – Bologna in Lettere 2017

Fra interferenze e inter-soggettività: al di là della «lirica»

 

Si è conclusa il 20 maggio la quinta edizione del festival interdisciplinare “Bologna in Lettere” con un weekend conclusivo ricco di eventi e di ospiti, nonché di molteplici spunti di riflessione intorno alla complessa congiuntura storico-sociale  nella quale si colloca la poesia contemporanea –  ammesso che per la res poetica si possa parlare, fino in fondo, di «collocabilità». Per l’edizione 2017 è stato scelto il titolo “Interferenze”, sia in riferimento allo spirito originario del festival, da sempre improntato alla comunicazione e all’interazione di diversi linguaggi artistici, sia come omaggio alla beat generation: l’ibridazione come rivolta e svolta, coscienza del proprio tempo e insieme rivendicazione dell’autonomia dell’espressione artistica in un sistema sempre più alienante, un sistema che tende a fagocitare entro le proprie maglie l’intero dispiegarsi del reale. Alla coazione a ripetere propria della macchina del godimento neocapitalistica la beat generation ha contrapposto l’acte gratuit della creazione poetica,  il godimento estetico/estatico e la ricerca inesausta di un senso condotta a partire dalle zone d’ombra dell’uomo (l’insensato per definizione). A mio avviso la dedica alla beat generation va letta non tanto come commemorazione accorata e un po’ nostalgica dei tempi che furono, quanto come memorandum, vivo e dinamico, rivolto a un presente frammentario nel quale la poesia, in Italia più che altrove, sembra aver perduto qualunque potere di azione concreta sul reale. Relegata il più delle volte ai margini dell’universo letterario e editoriale, il vecchio verbo poetico geme inascoltato dal proprio cantuccio sentimental-velleitario: intanto la storia va avanti per la propria, si ipervirtualizza e si ipermonetizza scrollandosi di dosso le inutili carcasse di segni senza significato. Di queste e altre tematiche si è ampiamente dibattuto durante l’evento spezzino di “Mitilanza”[1], mentre “Bologna in Lettere”, dal canto proprio, ha riservato al dibattito critico una sezione di approfondimento attraversata a più riprese durante il Festival: “Fare il punto/battere il tempo. Stato e stati della poesia contemporanea in Italia”. L’intento del Festival, come ha ribadito il direttore artistico Enzo Campi, è stato quello di impostare il problema favorendo un’istanza costruttiva: porre in primo piano, al di là delle personali prese di posizione, l’impegno comune per «la realizzazione di un’azione, non dico risolutiva ma almeno fattiva», volta a «dare ordine e significanza alla “molteplicità” che segna e caratterizza il nostro tempo»[2]. Azione e differenza: queste le coordinate entro le quali è forse possibile inscrivere un dibattito estremamente stratificato, nella speranza che le numerose voci possano creare, anziché una generica “confusione”, altrettanti nuclei di senso.

Veniamo al dunque: che fare? Quali le proposte per sottrarre la poesia al gorgo dell’insignificanza? Il Festival ha senza dubbio prestato fede al proprio intento nel preservare la “molteplicità” di cui si è parlato: gli interventi poetici e critici sono stati innumerevoli e variegati, si è passati dalle forme più tradizionali alla poesia sperimentale e di ricerca, dalle performance «ex corpore» al poetry slam, e ancora documentari, videoarte, musica, fra internazionalità e intergenerazionalità, suono e immagine. Qui mi limiterò a riallacciarmi a una delle questioni emerse  durante l’ultima giornata, quella appunto del 20 maggio, cercando di tracciare una delle possibili linee d’azione, fondata su una personale idea di poesia – idea e non opinione: le opinioni lasciamole pure ad altri media.

L’intervento di Alessandro Mantovani si è aperto con una legittima e condivisa presa d’atto: guardando «fuori» dal mondo letterario e poetico in senso stretto risulta chiaro che il trend imperante sia quello dello sfogo ipernarcisistico, spesso non filtrato e chiaramente deresponsabilizzato, di un proprio “sentire” interiore, lo sfogo esagitato e fulmineo da post su Facebook, per definizione breve, istantaneo. Va da sé che tali tendenze solipsistiche, in gran parte provenienti da una vasta fascia d’utenza di “non addetti ai lavori”, abbiano influenzato in modo diretto l’universo poetico contemporaneo, configurandosi in un primo momento come infiltrazioni sporadiche, poi, gradualmente, arrivando a costituire la struttura portante – per numero e per consensi – di tale universo. La «poesia» si sarebbe pertanto trasformata nel regno dell’amatorialità e dell’individualismo puro: chiunque scrive «poesia» (anche se nessuno la legge!), una «poesia» che è proliferazione incontrollata del privato in pubblico, una sorta di patologia endemica che in quanto tale non può più rivendicare alcuna portata etico-sociale. La poesia del sistema, con il sistema. Per far fronte al dilagare di questo morbo pericolosamente innocuo, Mantovani ha proposto il ritorno a una forma poematica, storico-epica, di poesia, che potrebbe arginare il dominio dell’istantaneità fine a se stessa attraverso il recupero della stesura lunga (analogamente a quanto avviene nel romanzo) e di contenuti immediatamente percepibili come etici – quindi storici, politici, in ogni caso collettivi e non privati. Mantovani ha infatti attribuito parte delle responsabilità dell’attuale “inutilità sociale” della poesia a una degenerazione della lirica, intesa come discorso focalizzato su un Soggetto scrivente che esprime in versi la propria interiorità nonché una Weltanschauung circoscritta al proprio dominio esperienziale.

A seguire, l’intervento di Sonia Caporossi ha evidenziato come la poesia sia prima di tutto forma che prevede una trattazione del linguaggio, a prescindere dai contenuti da esso veicolati, dall’estensione del singolo testo e dal suo assumere una veste più tradizionalmente “poetica” o più marcatamente “prosastica”. Per la Caporossi è necessario abolire le «distinzioni» e le «categorie» adottate dalla critica testuale classica in vista di una ridefinizione radicale del rapporto tra testo e lettore; affermare che la poesia contemporanea può riconquistare il senso perduto soltanto avvicinandosi progressivamente alla forma-romanzo significa dichiarare una disfatta.

L’estrema lucidità delle parole di Sonia Caporossi mi ha riportato alla mente un’affermazione di Giacomo Debenedetti ne Il romanzo nel Novecento: «Un romanzo è una risposta a uno stato di cose». La poesia è forse, di fronte al medesimo stato di cose, una domanda. Al di là del verso, delle strutture metriche adottate, delle tematiche occasionali, dei destinatari ai quali è rivolta: laddove il romanzo offre raffinatissimi strumenti di decodificazione del reale, la poesia scardina qualunque sistema preesistente attraverso la propria costruzione di senso e ci invita ad ampliare il nostro orizzonte percettivo inoltrandoci lungo percorsi inconsueti, rizomatici, vie di fuga e non coercizioni all’accentramento. La poesia è il senso che in-siste e re-siste lungo la durata testuale, sebbene spesso si nasconda, inconsistente com’è, fra un segno e l’altro, fra la coscienza di una perdita – la propria centralità nel mondo fenomenico – e il ritrovamento di un barlume: la libertà di dire nonostante la condanna ad essere.

Ormai da più di un cinquantennio parlare di Soggetto in poesia sembra essersi trasformato in uno slogan reazionario, per alcuni dire «lirica» equivale pressappoco a un insulto. Se da un lato è comprensibile il terrore di un potentissimo asse Io-Emozione-Social traslato in poesia, dall’altro è bene chiarire che fra un passato anacronistico e un futuro distopico esiste un presente dalle infinite sfaccettature e che per tentare di comprenderlo è necessario superare l’impasse conoscitivo causato da categorie fin troppo rigide. Si tende di frequente a identificare la presenza di un Soggetto con la totale immersione in un microcosmo rigorosamente individuale, autoreferenziale e autoprotettivo, separato dal mondo circostante ad esclusione di qualche sporadico contatto osmotico – un’osmosi che investe soltanto la superficie e non il sostrato, un confronto inevitabile ma sporadico che, tutto sommato, non cambia la sostanza delle cose. Mi chiedo, tuttavia, se sia realmente credibile una separazione Io-Mondo tanto netta e pervicace – tralasciando le verità scientifiche che ormai, nel duemiladiciassette, dovrebbero essere note a tutti. E d’altra parte perseguire un’oggettività del tutto indipendente dagli schemi cognitivi del soggetto sensiente non è forse un’altra bella utopia, di certo suggestiva ma pur sempre illusoria? Che si parli della speculazione edilizia nelle periferie o di una storia d’amore tormentata restiamo pur sempre soggetti. Fisiologicamente separati l’uno dall’altro ma accomunati dall’essere gettati in un mondo che si tenta ostinatamente di mutare, attribuendogli un qualche significato – esseri di mancanza, esseri di vita. La poesia dovrebbe dare voce a questa condizione strutturale dell’uomo senza per questo imporre una “risoluzione”: innescare la domanda e in tal modo agire, lungi dal pretendere risposte.

In questa prospettiva, la presenza rintracciabile di un Soggetto è cosa ben diversa dalla podestà ingombrante di un Io che aspiri ad essere padrone del mondo: è possibile una «lirica» non antropocentrica, una lirica che non è più lirica ma un residuo di lirica, una traccia psichica che si fa testo e arriva a confondersi con l’universo verbale articolato a partire da essa. Il Soggetto c’è ma appare trasfigurato in una miriade di maschere alternative e centrifughe, si nasconde fra i segni e i sensi della pagina, è uno dei tanti personaggi in un mondo che non gli appartiene. È un mondo per certi versi analogo a quello fisico e concreto, ma si tratta pur sempre di una superficie segnica (scritta, parlata, ascoltata, performata), parallela e autonoma rispetto a quella terrestre, sebbene ne sia di necessità dipendente.

Una poesia che sia in grado di esprimere le complessità del mondo contemporaneo non dovrà necessariamente “emanciparsi dal Soggetto” in senso stretto, l’obiettivo sarà piuttosto quello di “emanciparsi dalla realtà” pur essendone parte integrante, acquisire piena consapevolezza del contesto storico, sociale e politico in cui si trova a operare e metterlo in discussione mostrandone contraddizioni, conflittualità, mistificazioni. Nell’era della virtualità alienante e dei facili entusiasmi il discorso poetico, più che darsi un «ruolo» civile in senso assoluto, dovrebbe più realisticamente ritornare ad assumersi una responsabilità etico-pedagogica: quella di svelare i vuoti delle forme di significazione standard e di proporre una ricerca del senso alternativa, libera, disinteressata. Poco importa se a «dirlo» sia un Soggetto, perché «io» è sempre un altro, e l’emissione di un richiamo lo trasmuta facilmente in un «tu».

Secondo quanto è emerso dalle giornate di “Bologna in Lettere”, è forse possibile rintracciare diverse esperienze poetiche che, pur riprendendo alcuni stilemi «lirici» e mantenendo la presenza di un Soggetto, ne rovesciano totalmente la tradizionale valenza antropocentrica: si pensi ad esempio a Gli Inattuali di Gilda Policastro, alle figurazioni surrealistico-oniriche di Francesco Maria Tipaldi, al progetto Ophelia Borghesan di Luca Rizzatello, ma anche alle poesie estemporanee, bilingue, di Dome Bulfaro e Tania Haberland. Si tratta, non a caso, di proposte estremamente differenti fra loro tanto da un punto di vista linguistico-formale quanto sotto il profilo della fruizione, a riprova del superamento di qualunque forma di categorizzazione. Affermare la coesistenza di fenomeni poetici equipollenti ma distanti significa prendere coscienza di una contemporaneità altamente stratificata e nel contempo tendente alla contaminazione reciproca fra culture, società, nuclei identitari di vario tipo. Se l’omologazione appiattisce, la contaminazione estende il campo delle possibilità: ben venga dunque la spiccata eterogeneità delle proposte. Azione e differenza.

Si è parlato a lungo di padri putativi, parmenicidi, delitti imperfetti e via dicendo. A ben guardare, non credo che il «passato» vada semplicemente cancellato con un colpo di spugna; ogni forma artistica – che ne sia cosciente o meno – si inscrive in una tradizione culturale ben definita, di conseguenza trovo quantomeno ingenuo orientare le proprie azioni in base a un generico «andare contro». Parliamo e scriviamo in una lingua che qualcun altro ha codificato per noi: l’ovvietà disarmante di questa consapevolezza resiste a qualunque damnatio memoriae. Premesso ciò, ricordo con entusiasmo il primo intervento poetico in apertura del Festival, quello di Nanni Balestrini: « abitare il mondo intero non frammenti separati del / mondo/ ciascuno di noi è il centro del mondo senza essere un/ io / il mondo non è diventa si muove cambia ». Ascoltando Balestrini ripenso a Sanguineti, a Porta, ma anche a Zanzotto e alla Rosselli, e subito dopo, durante la prima proiezione, è la volta di Ginsberg e Burroughs. Padri insoliti, di certo non «canonici» per la propria epoca, talvolta in aperto conflitto – un conflitto fertile e costruttivo – l’uno con l’altro; all’interno di un’ipotetica griglia di “classificazione delle poetiche” essi occuperebbero posizioni in larga parte divergenti.

Eppure Zanzotto e la neoavanguardia qualcosa in comune ce  l’avevano: da ambedue le parti il linguaggio poetico si configurava come il risultato di un complesso trattamento, l’italiano standard veniva sottoposto a continue trazioni, scomposizioni, esplosioni semantiche e inabissamenti; il Soggetto, qualora fosse in qualche modo percepibile, rivelava sempre una consistenza fantasmatica, intimamente contraddittoria, non era che «un grumo o un ganglio» di senso errante fra un segno e l’altro. L’elevato tasso di figuralità del linguaggio innescava una metamorfosi del Soggetto tradizionale in precario actor di un mondo alla deriva ed è proprio sulla base di tale mutazione ontologica che si è passati da forme di soggettivismo a un’evidente inter-soggettività. È un’intersoggettività che agisce in direzione del senso accogliendo in sé i benefici della differenza, un Io-Tu che conserva un invisibile residuo «lirico» per combattere i rischi di un collettivismo riduzionistico, un’alternativa all’inesorabilità della storia, del tutto calata nella storia.

Laddove l’«epica» registra fatti, avvenimenti, vicende condivise e “corali”, la «lirica» sceglie i percorsi impervi della psiche, ci pone di fronte alla difficoltà di riportare a galla una qualche concrezione di significato, ci invita a potenziare le modalità consuete di percezione fenomenologica del reale – è proprio questo il punto di partenza imprescindibile per poter cambiare qualcosa. Un individuo cosciente del proprio statuto di Soggetto che si abbandoni a un’attenta ricezione del mondo fenomenico arriverà infatti a percepire anche se stesso come fenomeno e non come centro di realtà. Se abbandoniamo l’idea di un «centro» il nostro sguardo riuscirà ad abbracciare una porzione molto più vasta di mondo, all’interno della quale ridefinire il ruolo stesso del Soggetto e solcare nuovi sentieri, cercare altri approdi. Questo processo estetico-conoscitivo incide di necessità sullo status quo (storia, politica, società) poiché si rifiuta di accettarlo così com’è e innesta nel sistema il seme del dissenso, della diversità, dell’energia creativa che non conosce codificazioni né barriere. In un mondo intossicato di oggetti, inerte per sovraccarico, il brandello fisico-vocale di un Soggetto rivendica l’autenticità di un vuoto, il proprio vuoto di significato che è in fin dei conti il vuoto di ognuno, e produce infiniti sensi.

La post-lirica esiste già, è una tendenza concretamente tangibile che potrebbe convogliare in sé una vasta gamma di opzioni linguistiche e stilistiche. Mi riferisco ad alcuni filoni di ricerca che estrinsecano al massimo grado le potenzialità figurative della lingua pur mantenendo scelte lessicali e sintattiche assolutamente “attuali”, ipercontemporanee (netta prevalenza paratattica, lessico tecnico-scientifico, incursioni gergali), allo psichismo espressionistico denso di cortocircuiti semantici, alla linea comico-parodico-demenziale e al rovesciamento degli stereotipi socio-culturali da essa operato, alla rimodulazione di forme apparentemente “tradizionali” al fine di provocarne un collasso interno, infine a tutte quelle esperienze che prevedono l’interazione di componenti testuali e componenti performative, talvolta includendo il coinvolgimento diretto del pubblico nell’esecuzione della performance. Gli esempi da addurre potrebbero essere infiniti, ma qui l’intento è semplicemente quello di registrare una volontà che avverto come condivisa e condivisibile. La crosta dell’inazione, dopo anni di galleggiamento, accusa le prime considerevoli fratture: la poesia italiana contemporanea presenta diversi buoni presupposti per poter superare il limbo della marginalità e dell’innocuità. È tempo di spingersi al limite, toccare il limite, esistere sul limite per riconquistare il senso, con fatica e tenacia. Nonostante tutto.

(Marilina Ciaco)

 

[1]    http://midnightmagazine.org/tag/mitilanza

 

[2]    https://boinlettere.wordpress.com/2017/03/30/fare-il-punto-battere-il-tempo-stato-e-stati-della-poesia-contemporanea-italiana/

 

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